Ad un certo punto di "The whispering stars" veniamo a sapere che nell'ultimo pianeta da visitare per Yoko vige una speciale legge che impedisce di alzare il tono della voce oltre i 30 decibel.
Se questo è un film sulla fine dell'umanità, allora è anche un film sul rivedere l'intera dimensione post-moderna del cinema di Sono stesso, quasi una sua messa in discussione.
Whispering Stars non assomiglia davvero a nient'altro di quanto fatto precedentemente dal cineasta giapponese : tempi estremamente dilatati, utilizzo del bianco e nero, movimenti di macchina ridotti al minimo e una quasi totale assenza di colonna sonora. L'esatto opposto di quel "cinema-concerto", vigoroso ed infantile, divertente e divertito, fumettistico e dinamico che abbiamo imparato a conoscere e che ha trovato definitivo compimento in Love Exposure.
La protagonista del film è un androide che funge da corriere espresso per gli umani, navigando su una navicella spaziale dal design retrò (che richiama chiaramente il "Discovery" di "2001: Odissea nello spazio" e presenta interni vintage). La consegna di un pacco richiede anni, e la prima parte del film si concentra sul dilatarsi delle azioni quotidiane della protagonista, frammentando singole unità di una sequenza temporale attraverso didascalie che indicano il passare dei giorni.
Yoko agisce come un androide, alienata dal concetto del tempo, intrappolata in una realtà ciclica e monotona. Col progredire della narrazione, ella si avvicina agli umani destinatari dei pacchi, scoprendo la loro solitudine e smarrimento. Osservando il contenuto delle scatole, si rende conto che ciascuna contiene un simbolo della memoria: una foto, un pezzo di pellicola, una matita. Questi oggetti, una volta consegnati, offrono ai ricettori umani fragili e solitari la possibilità di recuperare la loro identità perduta dopo la catastrofe (nel film il fantasma dello tsunami di Fukushima).
I viaggi di Yoko da un pianeta all'altro la avvicinano progressivamente alla natura umana, alla comprensione della sua inevitabile deriva, in un mondo in cui la gioia sembra appartenere esclusivamente al passato. Passato che, in una delle sequenze più suggestive dell'intero cinema di Sono, emerge attraverso un ritorno alle radici dell'immagine in movimento: Yoko, per completare l'ultima consegna, attraversa un corridoio delineato da pareti Shoji, al di là delle quali la vita si dipana felice, sotto forma di ombre cinesi.
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