Crisi della comunicazione e disgregamento narrativo
Volto liturgico del cinema europeo, Béla Tarr,
nonostante sia forse destinato a rimanere ai margini della storia del cinema, ha saputo fronteggiare le indigenze umane con un pessimismo quasi risolutivo e una forma estremamente inflessibile.
È la tipica arroganza del grande artista la sua, egli promulga la propria volontà e percezione del mondo intero, trasformando lo spettatore da semplice entità osservante a destinatario di un messaggio quasi "necessario ed obbligatorio".
La reiterazione proporzionata, l'ostinazione della rappresentazione, la privazione di interruzioni nel racconto ed il sostentamento dell'angoscia emozionale sono da sempre un chiodo fisso all'interno del suo cinema, che si fa carico di uno sguardo vertiginoso, abissale e sfiancante, affacciato su un'esistenza statica ed inalterabile, dove la mutabilità avviene solo in procinto del suo ineluttabile disgregarsi.
Questa monografia si pone come obiettivo non solo quello di offrire al lettore un input per l'approccio al regista, ma anche quello di analizzare le componenti teorico-linguistiche del suo cinema, nel tentativo di fare chiarezza su stile e pensiero di uno dei maggiori cineasti dell'epoca moderna.
Gli inizi
Béla Tarr nasce nel 1955 a Pécs, nell'Ungheria meridionale.
Appassionato di cinema fin dall'età adolescenziale, a sedici anni crea il suo primo gruppo di provetti cineasti (che sarebbe successivamente diventato "la scuola di Budapest").
Fu proprio in questa sede, dopo 6 anni di pratica e sperimentazioni, che girò il suo primo lungometraggio, "Nido Familiare" (1977).
In questo suo primo film, ispirato da un'operaia di nome Irén, conosciuta nei pressi di una fabbrica di Budapest, Tarr si occupa di analizzare socio-politicamente alcune falle del sistema comunista ungherese, come la limitatezza di abitazioni offerte dallo Stato, che crea un disgregamento della dimensione familiare, o le condizioni di vita del proletariato, e lo fa attraverso l'utilizzo di un linguaggio estremamente affine al cinéma-vérité dell'avanguardia sovietica (non a caso, il gruppo di cineasti creato da Tarr si chiamava inizialmente "Dziga Vertov", che fu uno dei principali esponenti del cinema russo degli anni '20).
La didascalia iniziale dell'opera recita : "È una storia vera, non è accaduta ai personaggi del nostro film, ma sarebbe potuta accadere anche a loro"; è un incipit esplicito ed evidente che preannuncia l'interesse collettivo di quanto vedremo.
L'esuberanza di un allestimento così tangibile può essere sostanzialmente percepita focalizzandosi su tre punti: la macchina a spalla, l'utilizzo del suono in presa diretta (e quindi l'assenza di musica extra-diegetica) e il reclutamento di attori non professionisti.
Concentrandoci principalmente sulla regia, è
interessante notare come la macchina da presa sia sempre parte integrante della scena, come una sorta di entità mobile che segue i repentini spostamenti dei corpi, non indugiando su costanti primi piani e visualizzando
dinamicamente traslazioni mimiche, pezzi di frasi e discorsi accavallati; a tal proposito, Gianni Rondolino, sul terzo volume del manuale di storia del cinema scrive : "tra i vari modi di praticare il cinéma vérité c'è anche quello di usare la cinepresa come 'agente provocatore' , come stimolatore di azioni e comportamenti, i quali si realizzano proprio sotto la sua azione. In questo caso, la realtà e la sua verità nascono dal cinema, sono il frutto del suo intervento diretto".[1]
Tarr fa proprio questo, valorizza la presa diretta
del mezzo cinematografico sulla quotidianità viva, sorpresa nell'attimo stesso in cui può scattare l'evento della comunicazione fra chi gira e ciò che viene ripreso, e compie un'analisi sul principio trascendentale del dramma universale nelle silhouette convenzionali, definite dal loro spazio. Si tratta di una forma di racconto oggi denominata "docufiction" ,particolare lascito del neorealismo italiano, che scorpora però qualsiasi intento melodrammatico.
Per entrare ancora più nel merito, ecco un
fondamentale enunciato del sociologo/filosofo
francese Edgar Morin : "Si tratta di fare un cinema verità che superi l'opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, bisogna fare un cinema di
autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva". [2]
La prima fase del suo cinema simboleggia quindi il raccordo tra la smania di saldarsi alla realtà e l'esiguità degli strumenti utilizzabili, in un processo di commutabilità tra teoria estetica e politica, nel quale gli scorci rovinosi dello status umano possono già essere notati, nell'attesa di divenire parte fondante del suo periodo "compiuto", quello del pessimismo
ontologico.
Nel suo primo cortometraggio, Hotel Magnezit (1978), Béla Tarr inserisce tutti gli elementi che delineano la prima parte della sua attività, alcuni già riscontrati in Nido Familiare.
Il nucleo celeste, l'hotel Magnezit, è l'anello di
congiunzione tra l'uomo e la comunità, uno spazio dove la collettività si presenta però come concetto utopistico, o perlomeno non attualmente realizzabile, a causa del carattere interno disomogeneo ed inconciliabile.
Il grido del regista in rappresentanza della bassa società passa attraverso repentini controcampi e primissimi piani degli interpreti, gli spazi vengono lasciati quasi sempre in fuori campo, subiscono uno svuotamento, e i personaggi divengono il luogo stesso della vicenda; così la spersonalizzazione che è parte integrante dell'Ungheria comunista, disumanizza e aliena allo stesso tempo, mitigando la socialità all'interno di un rapporto convenzionale nel quale le parti si impegnano reciprocamente le une verso le altre, ma dove si esclude e ci si esclude.
Nel suo primo periodo, il regista colloca la macchina da presa sempre molto vicino ai volti e, come si può notare nell'ultimo fotogramma, quando decide di staccarsi da essi, tiene sempre al di fuori lo spazio filmico, concentrandosi più sul piano che sul campo.
Tornando brevemente a Nido familiare, il film vinse il gran premio della giuria al Mannheim-Heidelberg International Film Festival, aprendo al regista le porte della scuola ungherese di arti cinematografiche.
Béla Tarr gira così L'outsider (1980), dramma intimista che si ricollega allo stile e ad alcune tematiche di Nido Familiare e Hotel Magnezit ( l'incomunicabilità, il quotidiano nel regime comunista, il popolo che si auto-affligge a causa dell'economia oppressiva).
Il film fu il primo del regista ad essere girato a
colori, in modo da tralasciare quel sentore di forma dilettantesca che caratterizzava le opere precedenti, e torna a concentrarsi sugli emarginati (di cui il protagonista, Àndras, è il simbolo per eccellenza).
Ciò che si nota fin da subito è la maniera in cui ci viene presentato il personaggio principale, tramite una carrellata circolare che gli ruota attorno, si sofferma sul primissimo piano e poi si allontana di nuovo, in una sorta di moto costante che ingarbuglia lo spettatore all'interno della cinepresa.
Questo dubbio metodico destabilizza ed estranea allo stesso tempo, ci restituisce una visione del mondo offuscata, capziosa e atrofizzata, nel quale i personaggi si auto-defalcano ed eludono chi gli sta di fronte, rimanendo incastrati in un tempo statico dove la prolissità si riforma in un'inerzia perturbante da parte di tutti i trasmettenti, privando l'opera di quella drammatizzazione che caratterizzava i lavori precedenti.
La macchina da presa, quindi, scrive e spiega la diegesi filmica, opera una vera e propria riflessione sull’immagine, si fa estensione di coscienza e di movimenti dei caratteri, ne interpella il destino e ne indaga la solitudine, come quando durante il concerto Andràs viene ripreso in contre-plongée, una scelta registica che rompe la continuità emozionale per ri-affermare lo sguardo disilluso del regista, che se inizialmente pareva osservare l’arte come unica fonte di salvezza del violinista, evidenziandone l’importanza societaria (si veda la scena iniziale e collettiva), in conclusione pare mettere in discussione questo stesso pensiero, portando il protagonista al centro del frame (durante il concerto) ed isolandolo dal resto dello spazio (come accadeva già in Nido Familiare e hotel Magnezit), optando quindi per una visione più empirica e distruttiva, in netto contrasto con l’atteggiamento di rispetto generale del cinema ungherese di quell’epoca.
Lo sviluppo
Nel 1980 Tarr diviene co-fondatore del Társulás Stúdió, con il quale darà vita all'opera successiva, Rapporti prefabbricati (1980).
Si tratta di un ritorno all'occlusione familiare del suo film d'esordio, che anticipa il claustrofobico lavoro di costrizione spaziale di Almanacco d'autunno per tratteggiare la fine del rapporto coniugale.
Rapporti prefabbricati può essere considerato l'inizio di un nuovo modo di narrare da parte del regista, che per la prima volta lavora a stretto contatto con attori professionisti, tenendo fuori campo le implicazioni sociali, politiche ed economiche (punti focali dei suoi primi film) e si concentra maggiormente sul dramma personale.
Ciò non significa che il suo stile sia mutato totalmente; anzi, il modo in cui la circolarità del racconto viene manipolata non fa altro che ancorare, sempre grazie all'utilizzo della mdp (più composta, più asettica, più precisa), il concetto espresso fin da subito nel titolo: quella prefabbricazione che rappresenta la leziosità dei rapporti nell'opera e che non mostra punti di fuga dalla realtà, la quale diviene il vero e unico motivo del fallimento dell'uomo, che quindi non è più vittima della fallacia del sistema ungherese, ma della realtà stessa.
Prendere atto dell'inevitabile e continuo fallimento imposto dall'esistenza è l'unico modo per non disperare, e di questo punto d'arrivo Tarr prende atto tramite un lungo piano sequenza (uno dei suoi primi approcci a tale tecnica), che vede i coniugi protagonisti comprare una lavatrice, affrontare la crisi e svelare lo sconforto che li polverizzerà.
Dopo Rapporti prefabbricati si apre per Tarr una "piccola" parentesi: egli venne contattato dalla televisione ungherese per girare il classico teatrale Macbeth (che stava studiando quando ancora frequentava la scuola di cinema). Fu in questo frangente che il regista scoprì le potenzialità del video, il quale non imponeva limiti di lunghezza come la pellicola (con la quale non si poteva girare una scena oltre i dieci minuti) e quindi gli offriva nuove possibilità.
Macbeth è probabilmente il lavoro più sperimentale del suo primo periodo, che trasforma e rielabora il linguaggio teatrale, utilizzando la potenza figurativa del cinema per varcare le soglie di una dimensione catartica e orrorifica.
Il film si apre con un campo totale che evidenzia fin da subito la fedeltà ai meccanismi discorsivi d’origine: difatti, il punto di vista della macchina da presa rimane pressoché fisso, i movimenti si fanno impercettibili e i primi piani dei personaggi si formano solo grazie alla loro costante entrata in campo, eliminando così una punteggiatura prettamente cinematografica.
Dopo circa cinque minuti, il prologo termina (unico taglio di montaggio) per lasciare spazio a un magnetico piano sequenza di quasi un'ora.
Non ci sono digressioni o balzi discorsivi, l’azione si svolge in un singolo spazio-tempo che scardina totalmente le convenzioni narrative, ed è proprio qui che l’impianto teorico dell’opera può essere scovato, perché l’incipit analizzato sopra non ha solo la funzione di inoculare il film, ma anche quella di contenere indirettamente tutto l’evento.
Si può dedurre, quindi, che gli intenti dichiarativi di questo Macbeth non siano altro che un apparato sostitutivo atto a indicare la predeterminazione dell'esito dell'opera, ed è proprio in questa sede che possiamo riconoscere uno dei temi portanti del successivo periodo tarriano: l'uomo (Macbeth in questo caso) come responsabile della propria sciagura, persecutore del proprio fato; la visione tragico/catastrofica della condizione umana tanto cara al regista si materializza grazie al punto d'incontro tra forma teatrale e forma cinematografica.
È fondamentale, infine, analizzare il tipo di approccio al fuori campo scelto da Tarr; viene difatti eseguito un lavoro di de-potenziamento figurativo, ove l'ordinaria raffigurazione delle scene diviene meno determinante e l'evento indicibile avviene nel fuori campo cinematografico, ovvero in uno spazio che la cinecamera non coglie, non pone nel quadro. In questo modo il campo del reale subisce un'epoché tale da permettere di creare una dimensione in cui il disastro effettivamente avviene.[3]
La scena del volto di Macbeth che brucia sfrutta tutte le potenzialità dell'immagine cinematografica e, attraverso un gioco di equivoci tra campo e fuori campo, palesa tangibilmente la catastrofe, evidenziando in maniera sensazionale il tipo di rapporto che può intercorrere tra espressione filmica e sistema letterario.
Il secondo film realizzato con il Társulás Studió è Almanacco d'autunno (1984), con il quale Béla Tarr si emancipa radicalmente e definitivamente dal realismo documentaristico degli inizi per progredire verso quella formalizzazione stilistica che farà capolino da Perdizione in poi.
Dal punto di vista scenico, siamo di fronte a un'impostazione puramente concettuale: non vi è, infatti, un set preesistente, ma ne viene costruito (per la prima volta) uno da capo.
Il lavoro fatto sull'immagine ricorda quello già impostato in Macbeth, ma più potente ed edulcorato, carico di incisività, ed era proprio quello che Tarr cercava, un modo per rendere il film esteticamente espressionista sfruttando tutta la forza della messa in scena cinematografica.
Il punto di vista cambia insistentemente, è privo di centro; le carrellate laterali e i piani sequenza estetizzano; la macchina da presa si produce in un moto circolare che osserva i personaggi con estrema inesorabilità, costruendo geometrie e tralasciando quella fissità che caratterizzava i primi film per spostarsi continuamente da una zona all'altra dello spazio, in maniera sempre perfettamente simmetrica e radicale, così da creare dei rapporti dualistici che mettano in evidenza la corruzione dei rapporti tra i caratteri.
Non vi è una scelta tonale precisa nella fotografia. Tarr si indirizza verso un profluvio di colori costantemente divergenti, che porta la realtà ai suoi estremi e svuota i personaggi di significato, li spersonalizza, li priva di vita e gli dona artificialità, come fossero morti, tenuti in vita esclusivamente dalla macchina da presa.
Tutto ciò è la dimostrazione che, pur rimanendo ancora contenuto nel suo periodo spiccatamente sociale, il regista inizia già a ontologizzare lo spazio, e lo si può dimostrare analizzando, ad esempio, la scena nella quale Miklós schiaccia con violenza János contro un vetro trasparente.
Per comporla, è stata prima utilizzata una plongée dal soffitto del bagno, e poi una contre-plongée dal pavimento
È una contrapposizione di forze che sfocia nella violenza, punto cardine di tutto il film, ed è il momento in cui l'autore inizia a porre un quesito al suo stesso cinema (ecco l'ontologia dell'immagine), interscambiando insistentemente immagini-relazione e immagini-pulsione [4], riflettendolo e astraendolo continuamente, collocandolo su un piano squisitamente filosofico e imbastendo una visione estesa del mondo, sganciata da qualsiasi presupposto geo-socio-politico.
La contro-plongée viene utilizzata come meccanismo di distanziamento, totalmente l'opposto di quello che succedeva nei primi film di Tarr, dove la macchina da presa era situata in una posizione costantemente ravvicinata.
Questo fa capire come il meccanismo discorsivo del regista stia sempre più trasmigrando dal particolare all'universale.
I colori si mischiano ed entrano costantemente in antitesi, svuotando i personaggi di significato.
È come se Tarr ripartisse da un punto zero per
rimettere in discussione il proprio cinema.
Primi piani di matrice bergmaniana
Pessimismo metafisico : i grandi capolavori
Nel 1985 Béla Tarr conosce lo scrittore László Krasznahorkai, di cui vuole girare l'adattamento cinematografico del suo primo e ambizioso romanzo: Sátántangó.
La situazione politica dell'Ungheria di quei tempi gli impedì però di trovare i finanziamenti necessari, poiché nessuna struttura, nemmeno il Társulás Studió, era disposta a produrlo.
L'abbandono da parte delle istituzioni mise in crisi il regista, che si vide costretto a virare verso un'opera più raccolta : era il 1987, l'anno di Perdizione.
Scritto in collaborazione con Krasznahorkai, il film punta alla riproduzione di un mondo artefatto che sia in grado di reggere il legame con la realtà nella sua accezione più estesa.
Siamo ormai distanti dall'impronta realista delle sue prime opere; Tarr sembra voler soffocare la forza narrativa attraverso lo studio delle possibilità offerte dalla macchina da presa. La prosa consistente e intimista non viene sintetizzata, bensì ritrasmessa grazie alla capacità espressiva della macchina da presa.
La camera, difatti, smette totalmente di staccarsi dai personaggi a favore di un'estrema estensione del piano-sequenza (il primo dura nove minuti) che paralizza il tempo palesandone l'imperturbabilità.
Possiamo inoltre osservare come l'estremizzazione degli effetti visivi di Almanacco d'autunno lasci campo al rapporto spaziale intercorso rispetto all'ambiente rappresentato, che non è più artificioso ma sublimato dallo sguardo della cinepresa, dal campo lungo/piano sequenza e dal long take.
Il tempo diviene l'elemento cardine delle sue inquadrature, le quali, attraverso gli
spostamenti della macchina da presa, creano continui scenari metaforici abitati da soggetti comuni, che dialogano secondo principi meticolosamente studiati, di matrice filosofica, con un copione ben impostato e dotati di propria logica.
In una delle sequenze del film si palesa dinanzi allo spettatore una vasta area di scavi, poi uno zoom out retrocede fino a mostrarci un uomo di spalle, davanti alla finestra di casa sua.
È un osservatore del mondo esteriore, impossibilitato ad entrare in contatto con esso.
Il regista costruisce le inquadrature attraverso geometrie perfette che tendono a isolare i personaggi, a impedire loro qualsiasi tipo di comunicazione con ciò che "sta dall'altra parte"; essi sono bloccati, proprio come la loro etica e la loro posizione sociale, vittime di un'inazione vitale che già nei precedenti film era percepibile, ma qui si fa formalmente e concettualmente totale.
Il quadro come elemento di chiusura e costrizione, carattere ricorrente in tutto l'ultimo periodo tarriano
In Perdizione non vi è una sovrabbondanza di primi piani; la cinepresa si immerge nel vuoto soffermandosi sui personaggi e catturandone la solitudine. L'utilizzo del fuori campo cambia drasticamente: ora lo spazio è diventato sinonimo di un dramma esente da qualsiasi tipo di purificazione. Tutto inizia e finisce nel silenzio.
Da Perdizione in poi, lo stile adottato da Tárr sembra riprendere moderatamente alcuni ricorsi estetici del cinema di Andrej Tarkovskij (utilizzo del piano sequenza e di carrellate dai tempi estremamente dilatati), pur con intenti diversi.
Con Tarr, ad esempio, queste caratteristiche sono strettamente collegate alla necessità di analizzare il rapporto tra immagine e realtà rappresentata, discostandosi, a differenza del regista sovietico, da un qualsiasi tipo di trascendenza.
Lo schema attraverso il quale viene introdotto l'argomento rappresenta quindi il fulcro di tutta la poetica tarriana: la ricerca di una particolare relazione tra forma e contenuto.
Il protagonista del film, Karrer, è costantemente ubriaco. Si innamora della cantante di un bar che frequenta spesso e riesce, attraverso uno stratagemma, a ottenere una relazione con lei.
Questa sinossi è l'involucro che contiene al tempo stesso tutta la narrazione del film, che non definisce quindi i personaggi, né tantomeno i loro rapporti; il tutto è soltanto un pretesto per analizzare l'esistenza degradante dell'uomo stesso.
In Perdizione, la pioggia che ricopre la cittadina è incessante e, naturalmente, anch'essa è parte di un discorso più grande.
Si tratta della forza suggestiva dell'immagine, che dà forma alla precarietà della mente del protagonista; ancora una volta è quest'ultima a parlare, non il dialogo né tantomeno l'azione.
Con quest'opera Béla Tarr impone una visione del mondo esistenzialista, cinica e nichilista, scardinando qualsiasi tipo di convenzione narrativa e cortocircuitando il rapporto tra soggettività ed oggettività, laddove l'importanza filmica è da ritrovare non tanto nel cosa viene rappresentato quanto nel come viene rappresentato.
È un tracciato emotivo dove la linea di costanza
viene mostrata dall'assoluto deterioramento, e dove la narrazione, sembra volerci dire Tarr, non ha alcuna importanza.
Perdizione segnò l'inizio di un nuovo e definitivo corso cinematografico per il regista ungherese, che in seguito ottenne finalmente il riconoscimento critico internazionale.
E fu proprio grazie a questo accrescimento di fama che, tornato in patria, girò il suo monumentale capolavoro : Sátántángo.
Láslzó Krasznahorkai e Béla Tarr avevano due visioni del mondo estremamente corrispondenti : Sátántángo, partendo da una prospettiva di pensiero comune quale l'eterno ritorno nietzschiano, è un'opera mondo che sfida tutte le forme dominanti della narrazione cinematografica, che spinge al massimo le possibilità discorsive del cinema di spiegarsi all'interno degli spazi e dei tempi, per divenire "Uno dei tre o quattro film più definitivi della storia del cinema" (Enrico Ghezzi, Fuori Orario).
Come si può evincere dal titolo, la struttura prende spunto dal tango.
Il film è infatti suddiviso in 12 capitoli e ricalca proprio la struttura del ballo argentino, andando cronologicamente sei parti avanti e sei parti indietro, con le vicende di un capitolo che si intrecciano trasversalmente con quelle degli altri.
In sostanza, Sátántángo è un film il cui tempo è
formato da più tempi differenti compressi in sette ore.
La sua durata è di circa 425 minuti, per un totale complessivo di 156 inquadrature. Ciò significa che l'inquadratura media del film dura poco più di due minuti e mezzo.
Consideriamo che, in un film hollywoodiano contemporaneo, la durata media di una ripresa è di due secondi e mezzo.
Soffermarsi su questa differenza significa evidenziare una sostanziale insoddisfazione nei confronti del cinema tradizionale, il desiderio di immergersi in una dimensione del tempo della visione cinematografica totalmente diverso, dove ogni inquadratura amplifica a dismisura i propri significati, sia in riferimento a sé stessa sia nel suo connettersi con le altre.
Prendiamo ad esempio il piano d'apertura: con i suoi 7 minuti e 49 secondi risulta essere una delle inquadrature più lunghe del film, e mostra una mandria di bovini che vaga gradualmente verso l'esterno di un villaggio agricolo senza che occhio umano sia presente.
Solo più tardi ci è dato capire qualcosa di più sulle circostanze di questo esodo, ovvero che la mandria era un bene prezioso per gli abitanti del villaggio, i quali in uno stato di disperazione economica sono stati costretti a venderla.
Quello che Tarr vuole fare è lavorare quanto più possibile di astrazione, così da portare lo spettatore a osservare ciò che si muove sullo schermo in modo neutro, scevro da qualunque tipo di sovrastruttura, semplicemente per ciò che è.
In questo modo, possiamo vedere il valore della mandria di animali semplicemente nel suo stato d'essere, senza che vi sia un contesto a definirlo.
Tutto ciò è poi facilitato da un carrello laterale (tecnica utilizzata molte volte nel corso del film, specie per rappresentare gli abitanti del villaggio, consapevoli del fatto che la mandria ha lasciato il villaggio per vagare verso un destino incerto).
Si potrebbe dire che questi movimenti laterali della macchina da presa svolgano una funzione amplificatrice del dolore, imponendo agli individui facenti parte di questo mondo un senso di ordine visivo.
C'è però una differenza sostanziale tra l'ordine cinematografico della macchina da presa e quello sociale del film, che porta gli abitanti del villaggio a cercare un significato al di fuori di tutto ciò che hanno mai conosciuto.
L'ordine cinematografico della macchina da presa rivendica il valore di questi individui, che può essere scoperto, come accennato prima, semplicemente nel loro stato d'essere (ovvero nel loro statuto ontologico).
È interessante notare come i movimenti di macchina passino continuamente da moti circolari a moti lineari, e come queste due modalità discorsive cambino continuamente i significati dell'immagine, definendo gli stati di aggregazione e disgregazione degli abitanti del villaggio.
Questa ripresa di sei minuti danza tra diversi punti fissi, creando momentanee zone di attenzione
Il moto circolare della macchina da presa sembra trascinare i personaggi all'interno di un circolo vizioso che non permette di intravedere alcuna via d'uscita, pressoché infinito.
A tal proposito, la famosa sequenza del tango è forse il punto cardine dell'intero film, poiché la macchina da presa, pur non staccando mai, cambia costantemente e impercettibilmente posizione (verso l'alto, verso il basso, lateralmente, parallelamente) insistendo sul movimento rotatorio dei personaggi e riconducendoci sempre al loro "ballo infernale".
L'unico stacco di tutta la sequenza avverrà per soffermarsi su un primo piano di Estike, spettatrice malinconica del propagarsi caotico.
Soffermandoci infine sull'ultima sequenza del film, ne possiamo cogliere la fondamentale circolarità, quell'eterno ritorno nietzschiano già citato righe addietro. "Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata?»[5]
Per rendere le cose più chiare analizziamo tre sequenze, rispettivamente dai capitoli 1, 3 e 12.
Come in Perdizione, anche in Sátántangó la chiusura del quadro sigilla l'esistenza dei personaggi, impedendo loro la fuga e la comunicazione, costringendoli insistentemente in spazi chiusi e angusti.
Il primo capitolo partiva da una situazione di oscurità per poi dirigersi verso la luce. Un narratore extradiegetico ci espone il sogno di Fukaku, risvegliatosi a causa del suono di alcune campane. Egli successivamente guarda fuori dalla finestra, in cerca della provenienza dei rintocchi.
Nel terzo capitolo, un uomo corpulento è intento a osservare con un binocolo il mondo esterno, raccogliendo in un registro tutto ciò che accade. Uno zoom out riporta poi a un'inquadratura di spalle (proprio come accadeva nell'incipit di Perdizione).
Nell'ultimo capitolo dell'opera, quello stesso uomo fissa delle assi alla finestra, facendo sprofondare la stanza nell'oscurità e concludendo la narrazione. Prima di farlo, esce dall'abitazione attirato dal suono di alcune campane e, non trovandone la fonte, ritorna a casa. Poi la conclusione: si inizia con il buio e si conclude con il buio. È la dimostrazione della capacità fascinatoria dell'intreccio, che proietta l'aspettativa di una storia nell'inganno più totale, evidenziando l'utopia di una possibile fine e consolidando il discorso di un loop esistenziale.
Nello stesso periodo delle riprese di Satantango, Tarr gira un breve documentario, Viaggio nella pianura ungherese, nel quale rivisita i luoghi del film omaggiando il poeta Sándor Petöfi (che ha dedicato i sui scritti proprio alla stessa pianura e alla moglie).
Risulta un prodotto diverso, dal tono quieto e dalla grande densità poetica. La camera riprende i muri, le case e i sentieri, non più con sguardo disastroso ma affettuoso, sinceramente legato alla propria terra.
Questa piccola parentesi è quasi un momento di pausa, di purificazione, poiché sei anni dopo, nel 2000, viene ultimato il suo ottavo film : Le armonie di Werckmeister.
Tratto dalla seconda parte del romanzo "Az ellenállás melankóliája", riprende la struttura circolare di Sátántángo, ma opta per un'operazione narrativa differente, non più basata sui punti di vista di diversi personaggi ma su quello di uno solo, il postino János Valuska.
Qui il piano sequenza si intensifica ulteriormente, asservito a supportare uno scorrimento viscerale, intenso e legato agli avvenimenti sullo schermo.
Una delle cose che più risalta è la capacità del film di porre lo spettatore sullo stesso piano del protagonista, rendendolo testimone impotente di una degenerazione collettiva che assume una forma sempre più tangibile. Il film è composto da quattro entrate musicali; la prima vede János al centro di un pub, che inscena il moto dei pianeti, spiegando che la fine è solo un percorso necessario verso un altro ciclo celeste (riprendendo fin da subito il discorso di Sátántángo). La macchina da presa, forte di un magnetismo orbitale, assume quasi una funzione universale, diventa essa stessa un pianeta in moto nel cosmo, si dispiega continuamente nello spazio e avvolge i corpi nell'inquadratura, li incastra tra loro come pianeti sottratti al loro stesso peso; non vi è equilibrio tra gli uomini, János tenta di infondere conoscenza e pace agli individui rozzi, ma non ci riesce, e la musica che subentra in antitesi con la tangibilità della scena ne è l'esempio lampante: l'armonia è impossibile.
Il moto circolare della mdp si estremizza, quasi a voler disporre i personaggi secondo un'idea di disequilibrio, tramite un principio demiurgico. La scena successiva vede l'arrivo in città di un misterioso tir, che una volta fermatosi mostra al suo interno la carcassa di una balena dell'oceano Pacifico. Il protagonista vi entra, osservando il corpo martoriato e l'occhio esanime dell'animale. È il risultato della violenza dell'essere umano, che inganna e sevizia continuamente il più debole, avvolto da un'incessante frustrazione, desideroso di dominare la natura, abbracciando quella brutalità che a essa, invece, non appartiene.
La macchina da presa stringe significativamente sul viso di Janós e sull'occhio della balena, dietro non vi è alcuno spazio, si tratta della corrispondenza di sguardo, dell'esaltazione dell'innocenza.
La sequenza della distruzione dell'ospedale è di fondamentale importanza: i cittadini si dirigono verso la struttura e la devastano, tolgono i malati dalle loro brande e li picchiano, finché la vista di un vecchio scheletrico e indifeso, all'interno di una vasca da bagno, non fa cessare il loro impeto di pazzia. Questa parte del film, girata interamente in piano sequenza, ha una forza prorompente, poiché racchiude la totalità della follia umana all'interno di un luogo simbolo, quello dell'innocenza. Nel farlo si districa continuamente tra i corridoi, si ferma sulla soglia delle stanze per mostrare esplicitamente la violenza, e la costruzione spaziale si fa dinamica, i luoghi del consumo dell'atto si fanno molteplici, lo spettatore, proprio come János, è testimone di una violenza generale che si formalizza davanti ai propri occhi, grazie alla macchina da presa che riprende velocemente gli spazi e modella la dimensione caotica.
A partire dall'inizio del piano sequenza, la macchina da presa comincia a costruire la dimensione degenerativa, che si avvia proprio con l'entrata in campo dei soldati. La suddivisione dei due spazi (esterno nero, interno illuminato) rappresenta l'irruzione del caos nel luogo dell'innocenza, l'entrata in campo della violenza.
La posizione della mdp è sempre esterna, il più lontana possibile, in modo da replicare l'immagine dello spettatore, intento a scrutare il susseguirsi degli eventi.
La violenza umana cesserà solo d'innanzi alla figura di un anziano debole e scheletrico, in piedi in una vasca da bagno. Non è la pietà a fermare gli uomini però, bensì l'impossibilità di distruggere qualcosa di ormai completamente consumato, scarnificato, già distrutto.
Il primo piano di János alla fine della sequenza tiene fuori fuoco la porta, in modo da marcare il più possibile la sua funzione osservante. Le armonie di Werckmeister si configura quindi come una triste allegoria di un assolutismo tenebroso, nichilista e sregolato. Laddove il popolo, troppo preso dalla povertà e dalla miseria, vede nel circo e nella balena una sorta di mancanza di rispetto, di vergogna, János vede la meraviglia della creazione, il senso ultimo della bellezza, che trascende i discorsi totalitaristi del principe. Nell'ultimo atto del film, vediamo la balena privata del proprio contenitore, lasciata in balia della popolazione. L'armonia finale parte proprio da qui, con l'intellettuale Eszter che si avvicina mesto alla balena, nel bel mezzo dei detriti, per poi fermarsi a guardarla nell'occhio spento, denso di dolore per quegli esseri umani che l'hanno strappata al suo mondo.
Il movimento è circolare, verso destra, e accompagna l'uomo fino al cospetto dell'animale per poi allontanarsi insieme ad esso definitivamente.
In campo non c'è più nulla, solo la povera creatura che lentamente scompare nella nebbia. È forse giunta l'eclissi predetta da Janós?
L'uomo di Londra fu l'opera più complicata della vasta carriera di Tarr.
Egli viaggiò molto per riuscire a trovare una location adatta al tipo di narrazione voluta; in particolare, aveva necessità di trovare un porto di considerevole grandezza. Alla fine, la scelta cadde su quello di Bastia, in Corsica. Il film, tra potenza e fragilità, risulta essere finora il più spinto del regista ungherese, ma anche quello accolto più tiepidamente. In realtà, L'uomo di Londra, come tutto il cinema del regista da Perdizione in poi, si colloca perfettamente all'interno di quel percorso definitivo che fa della trasparenza discorsiva e d'immagine il suo punto cardine. Anche qui vi è un personaggio profondamente solo, Louis Maloin, guardiano del porto di Dieppe, che assiste al misterioso traffico di una valigetta, per la quale un uomo perderà la vita affogando nelle acque del molo.
Anche qui, come nelle opere precedenti, troviamo personaggi che scrutano da dietro le finestre, osservano un mondo con il quale non riescono a entrare in contatto.
Il primo piano sequenza insegue verticalmente il punto di vista di Maloin, per poi tallonarlo orizzontalmente, mentre egli scruta tacitamente i misteriosi avvenimenti al di sotto della torretta. La macchina da presa lo segue insistentemente, ma rimanendo sempre esterna alla sua visione senza mai entrare in soggettiva. È fondamentale in questo caso, analizzare il movimento di macchina iniziale, ascendente e concentrato a descrivere (e superare) la nave per poi andare a cercare il protagonista, sulla cima della torretta. Questo rapporto di contrapposizione (prima basso e poi alto) è anticipatore del successivo abisso morale del protagonista, destinato a precipitare (metaforicamente) dalla sua posizione sovrastante.
L'indolenza e la reiterazione divengono personificazione della rovina che opprime l'esistenza umana; anche qui, come nelle tre opere precedenti, tale codice viene scritto tramite l'utilizzo del mezzo cinematografico e conferma la cifra stilistica che da sempre contraddistingue il regista ungherese. Secondo Jacques Rancière difatti, "egli gira sempre lo stesso film, parla della stessa realtà; non fa altro che scavarla ogni volta un poco di più. Dal primo titolo all'ultimo, è sempre la storia di una promessa delusa, di un viaggio che si conclude al punto di partenza" [6]. Ne L'uomo di Londra Tarr, con estrema calma, sfiora con leggerezza l'inavvertibile esteriorità di una storia, lasciando lo spettatore impossibilitato a interagire con essa e con la vita del suo protagonista; lo sguardo è breve ed è immediatamente allontanato dal moto di ritorno di una quotidianità composta di particolari insignificanti.
Nell'universo creato da Tarr, l'interpretazione può essere data solo da una posizione intermedia tra l'osservatore e la sorgente luminosa, per mezzo di un nero trasparente che fa emergere la ciclicità del vivere quotidiano e l'espansione di un tempo scandito da una molteplicità di suoni. Si tratta di orme lasciate dal cammino dell'uomo, segni che questo film cerca di indagare con estrema scrupolosità, attraverso trenta inquadrature (nelle armonie di Werckmeister erano 39) che con estrema lentezza conducono all'ingresso nell'interiorità dei personaggi narrati.
L'uomo di Londra è forse l'opera di Tarr che più si inabissa nell'intreccio, con inquadrature che da una posizione estremamente esterna si focalizzano progressivamente sull'inazione delle scene. Prendendo in esame il momento del litigio tra Maloin e sua moglie, possiamo osservare come la macchina da presa sia situata prima all'esterno dello spazio, e poi, con un progressivo avvicinamento, entri a far parte della scena, attraverso un movimento circolare che, come già analizzato nel corso della monografia, funge da risucchio, proietta i personaggi all'interno di un circolo vizioso dal quale sembrano non poter più uscire. Nonostante L'uomo di Londra sia l'opera più narrativa dell'ultimo periodo di Tarr, il pessimismo ontologico di matrice nietzschiana non cessa di manifestarsi, rendendo il film l'ennesima analisi dello sconforto umano tanto importante per il regista.
La chiusura del cerchio : Il cavallo di Torino
Nel 2011 Béla Tarr decide di girare il suo ultimo film, testamento per eccellenza del regista ungherese, ormai certo di non avere più nulla da dire e quindi convinto di volersi dedicare ad altro: era l'anno de "Il cavallo di Torino".
Dio è morto. La sentenza di Nietzsche è il punto di partenza di questo film, da lì si può iniziare per realizzare l'antigenesi. "Dio ha fatto il mondo in sei giorni e noi compiamo questi giorni a ritroso".[7]
Non è un caso che Tarr, in un'intervista al Sole 24 Ore [8], faccia questa affermazione, dato che nel film la figlia di Ohlsdorfer legge alcuni versi di un testo datole in regalo da degli zingari, che narra della devastazione perpetrata dagli individui. D'altronde Nietzsche fu il primo filosofo a decretare la morte di Dio, ed è proprio dalla parola, come suo solito, che Tarr parte per indagare le possibilità e le fascinazioni della sua estensione immaginifica. Prendendo in esame il monologo con il vecchio Ohlsdorfer, lo spettatore ha subito la percezione che vi sia un qualcosa di catastrofico in esso, una realtà che sta crollando miseramente insieme all'uomo, testimone di un regresso ormai inarrestabile. Dio non esiste più, proprio come nelle armonie di Werckmeister o in Sátántángo, è stato tradito per il caos.
Il cavallo di Torino racconta i sei giorni di vita di un uomo, di sua figlia e di un cavallo, protagonisti di una realtà che precipita lentamente nel baratro. Il film inizia con una didascalia che descrive l'ultima apparizione pubblica del filosofo tedesco Nietzsche. A Torino, il 3 gennaio 1889, Friedrich Nietzsche esce dal portone del numero 6 di via Carlo Alberto, forse per fare due passi, forse per andare all'ufficio postale a prendere la sua posta. Non lontano da lui, o invero molto distante da lui, un cocchiere sta avendo difficoltà con il suo cavallo testardo. Nonostante le sue sollecitazioni, il cavallo rifiuta di muoversi. Al che il cocchiere – Giuseppe? Carlo? Ettore? – perde la pazienza e lo prende a frustate. Nietzsche raggiunge la folla e ciò mette fine alla brutale scena del cocchiere, che a quel punto sta schiumando di rabbia. Il robusto e assai baffuto Nietzsche salta improvvisamente nella carrozza e getta le braccia attorno al collo del cavallo singhiozzando. Il suo vicino lo porta in casa dove egli giace immobile, in silenzio per due giorni su un divano finché non mormora le ultime obbligatorie parole: “Mutter, ich bin dumm.” (“Madre, sono pazzo.”) e vive per altri dieci anni, mansueto e demente, tra le cure della madre e delle sorelle del cavallo… non sappiamo nulla.
Come da Perdizione in poi, anche qui è presente l'iconografico gesto di osservare fuori dalla finestra, guardare un mondo totalmente ostile, che ormai non può più offrire nulla. Ne Il cavallo di Torino l'azione è ridotta al minimo, l'anziano e sua figlia sono prigionieri della propria fattoria, alla mercé della furia naturale, che soffoca ogni loro volontà d'azione. Lui commercia una grappa ungherese alla frutta, la Pálinka, lei fa le pulizie, il vecchio cavallo rimane nella stalla in attesa di morire. Al succinto disegno che il regista replica periodicamente, si aggregano episodiche modifiche, ma fondamentali per sovvertire l'architettura narrativa (l'arrivo del compratore di liquore, l'arrivo degli zingari).
Béla Tarr elimina gli eventi climatici per costruire una poesia dei sensi, senza bisogno di abbracciare residui di racconto atti a coinvolgere lo spettatore. In particolare, sono la vista e l'udito a far parte della narrazione, proprio come il suo cinema ha sempre proposto (il bianco e il nero, la musica e i rumori sonori); è come se la concezione del tempo venisse costantemente stravolta, attraverso un innesto tra tempo cinematografico e tempo reale. Il cavallo di Torino, a ben osservare, è quindi un'opera più energica di quanto sembri, poiché, pur sostituendo alle situazioni d'azione quelle puramente ottico-sonore, riprende gli stessi momenti da differenti punti di vista, e questo porta a un continuo scavo filmico, uno studio meticoloso dei significanti, delle possibilità di osservazione di una stessa inquadratura, con tutte le implicazioni che ne possono nascere (emotive, discorsive).
Tornando all'inizio dell'analisi, occorre rimarcare che questo film è probabilmente l'opera testamentaria di Béla Tarr, perché rappresenta il suo addio al cinema; è così grande e prorompente che solo uno schermo cinematografico potrebbe contenerla, ed è proprio lì che il regista ungherese vuole tornare, al (e nel) cinema. Pur prendendo vita all'interno di un panorama cinematografico postmoderno, infatti, il cinema del suo ultimo periodo sembra volersi riappropriare delle origini, quelle delle forme di rappresentazione lumieriane, quando l'occhio era focalizzato sulla realtà ripresa e ne studiava le possibili variazioni di codice. Proprio per questo, il cavallo di Torino ha tutti i connotati di un'opera-fine, perché cancella ciò che il cinema è diventato oggi, o perlomeno vi si pone in netto contrasto e tenta, scavando all'interno di un'epoca antecedente alle connotazioni e agli studi post-moderni, di rifondare l'immagine filmica (anche se a Tarr il termine immagine non è mai piaciuto, si veda l'intervista con Enrico Ghezzi). Ed è proprio qui che risiede l'importanza dei film di questo regista.
Tutto è stato corrotto, compresa l'immagine, che qui gode in maniera determinante di una grana scura, tipica della celluloide, ormai destinata a scomparire
Ai personaggi del film la fuga viene negata attraverso un moto di ritorno (i personaggi si allontanano, finiscono in fuori campo, ma poi ritornano). A Tarr non interessa mostrare cosa ci sia nell'oltre, c'è una barriera ontologica che gli impedisce di andarsene
Nella scena finale, l'anziano Ohlsdofer e sua figlia tentano di accendere una lanterna per illuminare la stanza, senza tuttavia riuscirci. È l'ultimo barlume di speranza che si spegne; i due protagonisti si siedono alla tavola per mangiare, le parole di lui non trovano più un senso e lentamente si perdono nel buio che inghiotte tutto. Cala il sipario, il cinema è finito? L'umanità è finita? Non ci è dato saperlo, ma nel frattempo Béla Tarr ha concluso il suo percorso, perché soltanto lui poteva creare e infine distruggere il proprio cinema. È questo percorso che gli ha permesso di scolpire con forza il suo statuto di autore moderno nella storia del cinema.
NOTE
1. Manuale di storia del cinema, di Gianni Rondolino e Dario Tomasi, UTET università, 2014.
2. Storia del cinema, vol III, di G.Fofi, G.Morandini, G.volpi, cap. dalla Nouvelle vagues ai giorni nostri, Garzanti, 1988
3. Armonie Contro il giorno, il cinema di Béla Tarr, di Marco Grosoli, Bèbert, 2015
4. L'immagine tempo, di Gilles Deleuze, Einaudi, 2017
5. Nietzsche, la visione e l'enigma, di Angela M.Jacobelli Isoldi, Studium, 1983
6. Béla Tarr, il tempo del dopo, di Jacques Rancière, Bietti, 2015
7. Così parlò Zarathustra, di Friedrich Nietzsche, Adelphi, 1986
8. Cristina Battocletti, intervista a Béla Tarr https: //www.ilsole24ore.com/art/non-girero-piu-film -cinema-insegno-giovani--ABcuy6gB?refresh_ce=1
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