Beetlejuice Beetlejuice rappresenta il trait-d'union tra il passato filmico di Tim Burton (il Beetlejuice del 1988) e il suo presente. Tale discorso, inevitabilmente, si riflette su tutta l'industria cinematografica.
Sebbene Beetlejuice, Beetlejuice non escluda completamente la tecnologia digitale, fonda la sua dinamica visiva su un approccio analogico, enfatizzando la concreta realizzazione materiale rispetto a un semplice spettacolo di effetti speciali e ambienti virtuali. Il digitale ha il suo posto, naturalmente, ma va bilanciato in termini di scopo e ambientazione.
L'estetica artigianale e la tangibile manualità che hanno sempre contraddistinto il suo approccio al mezzo cinematografico (tanto da essere definito da una parte della critica "il George Méliès contemporaneo") diventano quindi veicolo di idee e strumenti di affabulazione.
Tim Burton, perlomeno quello degli anni '90, è un grande artigiano del cinema, capace di sublimare il suo impulso ribelle di adolescente all'interno di un campionario di forme bizzarre e irregolari, colori eccentrici, e creature grottesche ma al contempo straordinariamente umane.
La scelta di poggiare gran parte della propria poetica sulla dimensione materica del cinema e di sintetizzare con essa gran parte delle forme espressive e delle icone che hanno caratterizzato la cultura popolare dell'epoca moderna si traduce sostanzialmente in un'esaltazione e in una glorificazione del cinema come arte, indipendentemente dal successo commerciale dell'opera.
Nel rievocare fantasmi e relitti del passato, Burton ci mostra cosa è stato e cosa non è più da tempo. Così, Beetlejuice Beetlejuice diventa anche un gioco di illusioni, che riesce a confortarci richiamandoci nostalgicamente a ogni momento iconico o citazione, come il coro di "Day-O (The Banana Boat Song)" durante il funerale.
Peccato, però, che fatichi a innovarsi, ad aggiungere elementi nuovi e significativi. L'impeto galvanizzante di questa operazione nostalgia, infatti, non riesce a contenere un certo grado di prevedibilità e di discontinuità nel racconto, che fa molta fatica a tenersi insieme.
È il caso di tutte quelle linee narrative aperte e poi frettolosamente chiuse, strutturate unicamente per consentire alla trama di proseguire, o di quei personaggi la cui dimensione umana non viene mai sufficientemente esplorata, poiché lo spazio a loro concesso risulta fin troppo breve (importantissima all'interno dell'universo burtoniano di emarginati e freaks).
La pellicola, comunque, si presenta come un'opera complessa e forse conclusiva di un certo stile cinematografico, che sembra però sfaldarsi di fronte alla perdita di pezzi importanti. Questa natura "museale" delle cose risulta l'aspetto più interessante del film, una sorta di omaggio contemplativo che celebra l'arte del cinema del passato. Burton costruisce un'esperienza che rassomiglia a una galleria di ricordi, dove ogni scena diventa un pezzo esposto, un tassello di storia cinematografica da osservare con meraviglia e nostalgia.
Una cosa è certa: non esiste una vera transizione per questa eredità artistica.
Voto : ⭐️⭐️⭐️
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